I Muse fino a qualche anno fa probabilmente sono stati la band più amata e odiata del panorama rock mondiale.
Difesi da fan apostolici pronti a seguirli in qualsiasi vertiginosa svolta sonora, odiati dagli allergici al falsettone, ai muri di chitarre distorte tra pompose sinfonie orchestrali, in mezzo galleggiano fan e simpatizzanti, in attesa della consacrazione artistica, del capolavoro che non è mai arrivato. Sono dieci anni (Drones, 2014) che i Muse pubblicano dischi che non paiono più scuotere né appassionate critiche, né mirabolanti elogi.
La fetta di pubblico non schierata sembra essersi del tutto disinteressata alla band britannica, anche l’odio sembra essersi smorzato, quantomeno trasformato in indifferenza, e i fan integralisti non sembrano più chiamati alla difesa delle mura. Cosa resta allora di un disco come Absolution a vent’anni dalla sua uscita? Ha davvero qualcosa da dirci un disco dei Muse in questo periodo storico?
Scopro le mie carte: in adolescenza sono stato un grande fan dei Muse, e tuttora reputo Showbiz (1999) e Origin Of Simmetry (2001) due bei dischi. Non ho mai reputato Absolution un disco imperdibile, ma riascoltarlo dopo anni di digiuno mi ha fatto un certo effetto. Probabilmente se un alieno chiedesse di ascoltare qualcosa di rappresentativo dei Muse, gli consiglierei nel bene e del male di ascoltare Absolution. Tra l’irruenza post-grunge adolescenziale dei primi lavori, e la pomposità kitsch-neoclassica dei dischi anni 10, Absolution vanta una invidiabile sfilza di singoli: Hysteria, Time is running out, Butterflies & Hurricanes, sono solo tre dei cinque singoli estratti e ad alcune band sarebbero bastati anche solo questi per costruirci una carriera attorno. Siamo nel 2003, i Muse hanno delle vere hit, con melodie da popstar, ma ambizioni da art rock barocco, pur suonando come una band a tratti stoner. Il Muse-sound è servito.
Lo spettro dei Radiohead si dilegua definitivamente, perdendone qualitativamente in quei rari momenti di eleganza del passato (esempi ne erano Falling Down, piccola perla Showbiz, oppure la coda di Citizen Erased in Origin Of Simmetry), ma emancipando la band britannica dai cugini intellettuali e ritagliando loro un luogo da primi della classe nel mainstream rock.
Absolution è il tentativo più forte di affermare il buono stato di salute di un rock nuovo, anti-vintage, anti-revival, sfacciatamente post moderno, intriso di computer, fantascienza, luci strobo, suoni pesanti, tuffato verso un distopico futuro.
Alcune derive (Falling away with you su tutte) non nego che risultino invecchiate male nel loro forzato crossover e nella inevitabile stucchevolezza; ma prendiamo un brano come Stockholm Syndrome: pur non essendo forse una perla nella carriera dei Muse, figuriamoci del rock, lo strumentale finale ci mostra una vetta davvero alta di potenza sonora di questo disco, e se una band come i Maneskin se ne uscisse con un pezzo del genere oggi, qualcuno griderebbe al miracolo, e probabilmente avrebbe ragione.
Per giudicare oggi un disco come Absolution bisogna osservare lo stato attuale del rock mainstream, e con questo sguardo ci si può accorgere perché i Muse non provocano più tutta questa discussione.
La band britannica ha dogmatizzato una propria idea sonora, pur saltando negli anni compulsivamente tra i generi, non ha mai realmente ceduto al fascino vintage, al revival seventies, non ha più abbandonato l’idea che la chitarra ibridata possa essere il super-computer, lo strumento del futuro, si è chiusa nel suo stesso sistema di pensiero, mentre l’estetica musicale attorno è cambiata del tutto. Absolution è l’alba di questo processo.
Absolution rende bene l’idea di questa filosofia: «Siamo l’ultima band ad usare la chitarra in modo innovativo» sembra gridare Bellamy; e per quanto arrogante, devo ammettere che certi esempi musicali del disco rimangono impressionanti. Non a caso da quel momento riempiranno stadi, si mostreranno come una delle band live più potenti del pianeta e da lì in poi nascerà il vero Muse-sound, per la gioia di molti, e il fastidio di alcuni.